29 giugno 2009
L’abuso passe-partout
Quando, circa un anno fa, denunciavo (su GT-Rivista di giurisprudenza tributaria n.6/2008) l’abuso del concetto di abuso del diritto che si profilava nella giurisprudenza della Corte di cassazione avevo sotto gli occhi una serie di sentenze nelle quali al concetto si ricorreva in modo improprio. Perché lo si risolveva nella condotta sprovvista di valide ragioni economiche, senza indagare sulla coerenza del risparmio d’imposta conseguito con la ratio delle disposizioni che lo producono e del sistema di regole nel quale si inseriscono. Omettendo, dunque, un passaggio irrinunciabile: come configurare un abuso senza ravvisare un qualche conflitto tra il godimento del risparmio ottenuto e gli intendimenti del legislatore?
Alcune successive sentenze delineano un’ulteriore dimensione, e dunque un deciso aggravamento, del fenomeno che rilevavo. Una dimensione nella quale al concetto la Suprema Corte ricorre in forma di passe-partout, spesso – è vero (e per fortuna) – in guisa di mero obiter dictum, per risolvere (o concorrere a risolvere) questioni che nulla hanno in comune con l’abuso.
Talvolta il tema è quello della inerenza: di oneri sostenuti per attrezzature e macchinari concessi in comodato al fabbricante dei prodotti commercializzati dalla società (Cass. n. 1465/2009); di oneri sostenuti per automezzi e personale utilizzati dalla ditta individuale di uno dei soci della società (Cass. n. 10981/2009). Talaltra, quello della attendibilità della presunzione di distribuzione, nell’ambito di un gruppo di tipo familiare, al socio della controllante di utili conseguiti extracontabilmente dalla società controllata (Cass. n. 13338/2009).
Si tratta, evidentemente, di sentenze nelle quali il richiamo all’abuso appare fuori luogo: inutile, quando poi la controversia è decisa con riferimento al tema intorno al quale in effetti ruota (come in Cass. n. 1465/2009); dannoso, quando invece serve a giustificare la decisione assunta, scavalcando detto tema (come in Cass. n. 10388/2009 o in Cass. n. 13338/2009).
L’impressione che se ne ricava è che i giudici della Suprema Corte si stiano comportando in materia da apprendisti stregoni, utilizzando la nuova bacchetta magica dell’abuso del diritto senza il necessario discernimento, in alcuni casi persino quale scorciatoia per argomentare una certa soluzione senza farsi carico di un confronto con le questioni giuridiche che i casi da decidere prospettano.
Scritto il 29-6-2009 alle ore 11:28
Certo la giurisprudenza in esame la critichiamo tutti, ma un ricercatore delle scienze sociali deve capire le ragioni dei comportamenti. Perchè i giudici si orientino nella dialettica tra lettera e spirito della legislazione tributaria occorre che qualcuno indichi loro la funzione della legislazione tributaria sostanziale, che è quella di misurare la capacità economica, la dialettica tra capacità economica nascosta e regime giuridico di quella dichiarata, le varie tipologie di evasione. Se c’è una idea del diritto allora si può parlare di “abuso del diritto”. Se lo spirito della legislazione fiscale è “prendere gettito” o “salvaguardare la proprietà”, e molti cattedratici spiegano con le necessità di gettito tanti aspetti relativi alla misurazione della capacità economica, allora la lecita pianificazione fiscale “è elusione”. Quando saranno chiari i compromessi necessari a determinare la capacità economica, ad es. tra semplicità, precisione, cautela fiscale, etc., sarà possibile parlare con chiarezza di uno “spirito” della norma fiscale. Non si può capire l’abuso del diritto se non si sa cos’è il diritto, e si pensa che coincida con le parole scritte sulla gazzetta ufficiale. Quando gli schemi esplicativi vanno in confusione, come dico nell’altro mio post intitolato “tassazione teorie e professionisti”, tutte le altre istituzioni danno segno di disorientamento. Volendo essere cattivi si potrebbe dire che la giurisprudenza sull’abuso del diritto deve ancora peggiorare molto per arrivare al livello dei modelli di spiegazione della realtà che (non) ha a disposizione.
Scritto il 29-6-2009 alle ore 15:25
Fino a poco tempo il “passe-partout”, come lo chiami tu, erano i cosiddetti atti antieconomici.
Vedo con piacere che la Cassazione si stufa di giocare sempre con lo stesso gioco, e adesso si rifà (altrettanto a sproposito) all’abuso del diritto.
Mi viene un’idea: facciamo un quiz fra tutti noi e vediamo chi indovina il prossimo “passe-partout”??
In premio, il titolo di apprendista stregone ad honorem….
Scritto il 30-6-2009 alle ore 18:31
….possibilità di disconoscimento dei comportamenti non coerenti del contribuente relativamente al principio di imputazione a bilancio di ammortamenti, accantonamenti e altre rettifiche…quale principio codificato dal legislatore ma immanente nel sistema e grimaldello per sindacare la capacità economica dichiarata, anzichè l’occulta….
Purtroppo la norma è figlia, come direbbe Raffaello, della insufficiente teorizzazione dell’applicazione del modello di tassazione analitica, prescindendo dall’analisi della struttura organizzativa e delle gestione della capacità reddituale
Scritto il 1-7-2009 alle ore 21:59
personalmente nutro qualche perplessità, Fabio, sul fatto che possa, in ambito tributario, sussistere un principio immanente relativo a comportamenti non coerenti del contribuente, nel senso, poi, effettivamente normato. Il sistema fiscale, per necessità, è caratterizzato da molteplici forfetizzazioni, fra minimi e massimi, in cui il contribuente, credo, possa scegliere liberamente di collocarsi senza, per questo, dover giustificare alcunché al fisco.
Scritto il 2-7-2009 alle ore 18:23
Concordo con te…
Scritto il 9-11-2009 alle ore 18:46
Il ragionamento sviluppato dal Lupi è certamente significante, in una prospettiva di ampio respiro, che guarda alla realtà normativo-economico-sociale nel suo assieme e nelle sue ragioni d’essere.
Resta però il fatto che, se si osservano talune specifiche sentenze del S.C. nelle quali è enunciata la categoria dell’abuso del diritto in tema d’imposizione sui redditi, ci si avvede tosto del fatto che – come, non a caso, aveva in quei processi bene lumeggiato l’Avvocatura dello Stato, in difesa dell’Amministrazione delle finanze – sussisteva una contraddizione ancipite intra-negoziale, tale da dovere indurre, in ermeneutica, a una statuizione di simulazione. E, come noto, quest’ultima – istituzionalmente – nulla ha a che fare con l’abuso. Ciò a me – e invero non soltanto a me – appare piuttosto difficilmente revocabile in dubbio.
Scritto il 15-11-2009 alle ore 17:59
Giuliani in un certo senso ha ragione, però è una simulazione del tutto particolare nel senso che le parti non hanno voluto un negozio diverso, nè hanno voluto far apparire un negozio che in realtà non volevano. Piuttosto, hanno stipulato un certo negozio solo in funzione di un vantaggio fiscale, per sfruttare un arbitraggio tra plusvalenze esenti, dividendi con credito di imposta e minusvalenze detraibili. Hanno abusato dei metodi di coordinamento tra tassazione delle società e dei soci. Però hanno voluto quel contratto, e per questo penso sia difficile considerarlo simulato.
Scritto il 12-2-2010 alle ore 14:55
Personalmente, ritengo che oscilliamo tra due possibilità altrettanto infauste: attribuire agli uffici un potere discrezionale di “disconoscimento/riqualificazione” pressoché illimitato, ovvero accettare che, mediante lo sfruttamento delle “smagliature” del sistema, si possa minimizzare o eliminare l’imposizione.
Francamente, non so se i problemi potranno mai essere eliminati: è la stessa complessità del sistema a originarli.
Il reddito d’impresa sorge infatti come “ricaduta” del fenomeno economico sottostante, che nasce (nell’impresa, appunto) in un contesto del tutto difforme, la cui rappresentazione viene fornita in termini amministrativo-contabili orientati alla correttezza e veridicità delle informazioni. Poi intervengono le norme del TUIR, il cui carattere analitico si presta a molteplici contrasti interpretativi.
L’elusione “codificata” (coperta dall’art. 37-bis) in tale contesto non è meno vaga delle elaborazioni giurisprudenziali in materia di abuso del diritto, perché in ambedue i casi si tratta di colpire dei comportamenti che non sono in alcun modo sanzionati dal diritto positivo, ma semplicemente “non desiderati” (o, meglio, non preveduti) dal legislatore. Evidentemente, alla luce di un’interpretazione unilaterale dell’amministrazione.
Un po’ di chiarezza a questo riguardo gioverebbe anche alla parte pubblica, oltre che allo stesso ordinamento giuridico.
Scritto il 19-11-2010 alle ore 13:25
Ed invece, ad andar di bulino, “simulazione” il “dividend stripping” – al pari del “dividend washing” – lo è (ed eccome!), checché (anche qui) ne dica il Lupi: sol che si studi la ricostruzione dogmatico-teoretica dell’istituto simulatorio, operata in affrancamento dall’ormai più che vetusto “dogma della volontà”, perspicuamente operata, per tutti, nell’opus di Aurelio Gentili (per tacer poi degli studi sull’ermeneutica negoziale dello Irti).
Né dicasi che questa è ottica angustamente privatistica – alias poco amministrativistica -, ché basta, sul punto, sottoporre anche a disamina gli scritti, in argomento, del Falsitta.
Si opina, insomma, che simulazione ivi NON vi sarebbe, soltanto restando avviluppati a un’angusta – e oltrepassata – visuale prettamente manualistica della simulazione in quanto tale. (E lì, per vero, più che lettura “amministrativistica” del dir. trib., sembra divisabile, au fond e piuttosto, una pseudo-lettura impropriamente aziendalistica del tòpos in parola – ché, fra l’altro, il diritto amministrativo ben conosce la simulazione, come molti altri istituti ontologicamente privatistici, nel suo “Sinn” più autentico).